Ammarrapanza
L’ammarrapanza e’ una versione molto modesta del tradizionale buccellato. È un dolce molto antico che oggi è molto difficile trovare fra le produzioni dolciarie abituali.
Venivano detti ammarrapanza, cioè riempi pancia che se, all’atto della vendita venivano tuffati in uno sciroppo o rosolio, costavano più cari.
Nella mia memoria l’ammarrapanza resta scolpito perché è legato a ciò che accadeva nella taverna di Pipparieddu (anche se lui, in realtà, era don Cosimo Corrao) che si trovava sotto casa mia. Pippareddu fungeva da cuoco e sopratutto da oste. Questa ultima funzione, molto spesso lo portava a partecipare agli immancabili “tocchi” che si svolgevano nel suo locale. A fine ricetta, nelle curiosità, vi parlerò del “tocco” del quale vale la pena spendere due parole.
In realtà ciò che lega i miei ricordi all’ammarrapanza è un personaggio che stazionava, nei sui periodi di stasi, davanti alla citata taverna. Non ricordo il suo nome (forse don Nunzio) ma era conosciuto in tutto il quartiere perché portava il suo piccolo banchetto anche davanti alle scuole elementari che io frequentavo. La sua merce consisteva in piccole “liccumarie” come le caramelle carrubba avvolte in anelli di latta, chiavi di San Pietro fatte di zucchero ripiene di acqua colorata zuccherata, le piccole mele ‘ncilippate (caramellate) e, finalmente il nostro semplice e spartano ammarrapanza del quale io andavo matto, suscitando la rabbia di mia nonna Nina (Veronica) che, oltre a definire il venditore ambulante con l’appellativo di alloccapani e’ picciriddi, non concepiva la vendita per strada di generi alimentari, sopratutto se offerte ai bambini. Tuttavia l’ammarrapanza a me piaceva tantissimo e molto spesso contravvenivo agli insegnamenti della mia adorata nonna…
Gli ammarrapanza dei miei ricordi consistevano in una sottilissima sfoglia scura che avvolgeva molto semplicemente ficu sicchi e passuli (fichi secchi e uva passa); quelli che vedete in foto li ho voluti realizzare in maniera meno spartana, anche e sopratutto in onore della mia Nonna Nina che magari davanti a questa versione resterebbe meno perplessa.
Ingredienti per circa 25 ammarrapanza
1 kg farina 00
450 gr di zucchero semolato
500 grammi di fichi secchi
200 grammi di uva passa
2 uova
200 ml di vino bianco secco
100 ml di olio e.v.o.
15 gr di sale
una punta di cucchiaino di bicarbonato
Procedimento
Prima di procedere è bene eliminare tutti il peduncoli dei fichi secchi e poi tritarli finemente. Adesso mettere in una casseruola 300 ml d’acqua insieme a tre cucchiai di zucchero (dei 450) e i fichi secchi tritati. Portare a ebollizione e far cuocere, a fiamma moderata, per cinque minuti e poi unire anche l’uva passa e continuare la cottura per altri cinque minuti. Spegnere la fiamma e mettere a raffreddare il composto di frutta secca.
Setacciare la farina e metterla in una ciotola capiente insieme allo zucchero e mescolare . Adesso impastare (noi abbiamo usato la planetaria) con il vino, l’olio e subito dopo le uova sbattute, fino ad ottenere un impasto simile a quello della pasta frolla. Formare una palla e poi spianare in una sfoglia sottile (circa 3 mm) dalla quale, con l’aiuto di un coppapasta, ricaverete delle forme circolari ci circa 12 cm (dimensioni che potrete modificare secondo il vostro gusto). A questo punto depositate un po’ del compsto di frutta secca al centro della forma e poi riunite al centro i bordi della forma circolare n modo da formare una specie di cestino. Con le dita comprimere verso il centro in modo di sigillare l’ammarrapanza. Adagiarli su di una teglia foderata con carta da forno e mettere in forno preriscaldato, almeno 30 minuti prima, a 250° per circa trenta minuti (temperatura e tempi sono indicativi perché i forni casalinghi posso differire).
Servire spolverando con zucchero a velo.
Noi li abbiamo ulteriormente arricchiti con il composto di frutta secca che ci è rimasto unendovi qualche cucchiaio di miele, gocce di cioccolato, un cucchiaio di un mix di aromi per panettone che avevamo in casa e infine una spolverata di diavoletti di zucchero colorati.
Curiosità sul tocco
Vale la pena spendere due parole per questo vizio che abbina alcool e carte da gioco che ha l’obiettivo di bere più che si può cercando di fare rimanere “accucchiati” (a bocca asciutta) gli altri partecipanti.
(Fonte: https://rumpiteste.wordpress.com/2017/11/01/tocco-di-classe/):
“Chi detiene inizialmente il vino è deciso tramite conta, da cui il nome tocco, oppure con le carte. Il sorteggiato, che per il disturbo può bere la quantità che preferisce o non bere affatto, nomina un nuovo capo e un sottocapo, da cui deriva il nome con cui è conosciuto in molte parti di Sicilia, Patruni e Sutta. La scelta è molto importante perché il capo propone al sottocapo due persone a cui far bere, ma il sottocapo, finché il nominato non ha poggiato le labbra sul bicchiere, ha diritto di veto e quindi se fra i due non si raggiunge un accordo si crea una situazione di stallo che talvolta dà luogo a contrattazioni e perorazioni che possono essere interrotti dal giocatore inizialmente sorteggiato che bevendo lui stesso mette fine alla diatriba. La “bellezza” del gioco sta nell’oratoria di capo e sottocapo che, per giustificare le loro scelte, danno vita a infervorati discorsi, e in cui si possono mescolare ironia, vecchi risentimenti, passioni represse o addirittura umiliazioni che, non deve meravigliare, ogni tanto degenerano.
Terminato il round di bevuta, si prosegue con un nuovo tocco fino all’esaurimento degli alcolici senza un vero e proprio vincitore.
Anche il grande Nino Martoglio ha dedicato al tocco una delle sue poesie”.
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