Perché filetti di baccalà alla Mommo e non semplicemente filetti di baccalà al forno?
Intorno al 1970 un mio caro amico e collega di lavoro, originario di Mrezzojuso in provincia di Palermo, mi diede questa ricetta che, a quanto pare, usavano in famiglia. Mi incuriosì sopratutto per la particolarità della cottura che,
mi confidò, averebbe permesso di cucinare il baccalà senza che sprigionasse il caratteristico profumo, a volte poco gradevole, durante la cottura. Provai la ricetta che rispettò tutte le peculiarità appena accennate e che, in più, possedeva anche un gusto davvero unico.
Da quel momento, in casa mia, questa divenne la ricetta del baccalà alla Mommo.
Qualche anno dopo, a Roma, vicino al quartiere Testaccio, cenai in una trattoria dove nel menù trovai scritto, fra le altre pietanze, baccalà alla Mommo. La cosa mi sbalordì non poco perché il nome che diedi alla mia ricetta, del tutto casuale, avrebbe potuto essere “alla Giovanni” o altro nome. Ovviamente ordinai baccalà alla Mommo e, con grande piacere, scoprii un baccalà alla Mommo, fritto in pastella di una bontà immensa, ma totalmente diverso dalla mio baccalà alla Mommo. La conseguenza della stranissima coincidenza fu che annoverai fra le ricette di famiglia anche la ricetta romana.
Oggi, in ogni caso, baccalà alla Mommo palermitano!
Ingredienti per due persone
gr 600 filetti di baccalà privati della pelle
3 panini semprefreschi oppure due mafalde
2 patate
latte q.b.
sale e pepe q.b.
olio evo q.b
Procedimento
In una teglia ben oliata deporre le patate crude tagliate a fette non troppo sottili (circa mezzo cm.) in modo da ricoprire il fondo. Spolverare con sale e pepe le patate e adagiarvi sopra i filetti di baccalà, aggiustare di sale e pepe e cospargere il tutto con un filo d’olio. A questo punto bagnare (non inzuppare) la mollica di pane con il latte, adagiarla sui filetti di baccalà e fare in modo di murare (sigillare) tutta la superficie della teglia. Infine spennellare la superficie con l’olio, mettere la teglia in forno preriscaldato a 180° e far cuocere fin quando si formerà una crosticina dorata. Se necessario, per agevolare la doratura, potete passare per qualche minuto sotto il grill del forno stesso.
Servire caldo
Curiosità
Il baccalà, in siciliano baccalàru, per il professore Vincenzo Mortillaro è “una sorta di pesce di mare la cui carne molto bianca e leggiera allo stomaco”. Fino a pochi anni fa si vendeva ammollato sui banchi del pesce di ogni angolo di Sicilia. Mostrava i suoi carnosi filetti come spudorate intimità in graziose vaschette con lo zampillo. A seconda delle stagioni quel biancore era interrotto da un grosso pomodoro maturo oppure da un bel ravanello. Quel rosso violento serviva ad attirare l’attenzione delle massaie: era quel che oggi si chiama window in termini di marketing pubblicitario. Era stato scoperto nel 1431 da Pietro Querini, un mercante veneziano che aveva fato naufragio alle isole Lofooten, nel nord della Norvegia. Quel pesce essiccato permise le prime, lunghissime navigazioni atlantiche. Una scoperta determinante per la cambusa dei bastimenti dell’epoca: un prodotto leggero, altamente proteico e di lunga durata. Forniva proteine in grado di equilibrare un’alimentazione a base di gallette, pesce salato in barile, poche zuppe di cereali e frutta secca.
In Sicilia ci arrivò a metà del XVIII secolo quando il pescato cominciò a scarseggiare. E in mare c’era da fare i conti pure con la pirateria che impediva ai pescatori di allontanarsi dalla costa. Mentre conventi, monasteri e devoti osservanti riservavano ben 131 giorni all’anno al “mangiare magro”. Già nei primi anni di regno di Carlo III di Borbone si parlava di consistente calo del pescato; il settore languiva e la colpa fu attribuita a delfini e squali che infestavano le zone di pesca. Anche se molti ne addebitavano la responsabilità all’abuso di reti a maglie strettissime e il ricorso a “ordegni di polvere pirica” e certi “funesti veleni” usati dai pescatori disonesti. Si arrivò a invocare dal papa un “anatema solenne” contro delfini e squali! Più laicamente, sia Carlo III che suo figlio Ferdinando emanarono leggi con pene assai severe per evitare la distruzione di flora e fauna dei fondali. E nel contempo si autorizzò, già nel 1790, l’importazione “di aringhe e merluzzi” dal Nord Europa. E pure dalla lontanissima America. Baccalà viene dal basso tedesco-scandinavo bakkel-jau, cioè bastone pesce; stoccafisso sta per stock-fish che è pur sempre un bastone pesce. Ma in inglese. In siciliano diventarono piscistòccu e baccalàru. Ne venne fuori una certa confusione generata dai termini. Stoccafisso è merluzzo essiccato, mentre baccalà è merluzzo conservato sotto sale: ambedue hanno un odore particolare, sui generis. Precisa sempre il Mortillaro nel suo dizionario: “in senso osceno sta per sesso femminile”. Baccalaru alla ghiotta, baccalaru a sfinciuni, stoccu alla missinisa, stoccu e patati sono alcuni piatti siciliani che videro protagonisti quei merluzzi. Se i messinesi impazzirono per lo stoccafisso, i palermitani, giusto per fare il contrario, si scoprirono una vera passione per il baccalà. Fra nobili e plebei fu lotta all’ultima ricetta. Fu così che quel pesce nordico venne a concludere la sua terrena esistenza in un mediorientale tripudio gastronomico di zafferano e “passuli di zibbibbu”. [dal vocabolario sentimentale della parlata siciliana di Gaetano Basile]
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